La sentenza Deloitte (C-413/23 P, pronunciata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea in data 4 settembre 2025) ha suscitato forte interesse nel settore privacy, soprattutto per il tema dell’anonimizzazione e pseudonimizzazione dei dati.
Alcuni la dipingono come rivoluzionaria, ma un’analisi approfondita mostra che si tratta piuttosto di una conferma di principi già consolidati sia nella prassi che nella giurisprudenza UE, piuttosto che una pronuncia, di per sé, realmente innovativa.
Come noto, la vicenda nasce da una consultazione del Single Resolution Board sul caso Banco Popular Español, per la quale Deloitte analizzò i dati raccolti dagli stakeholder in forma pseudonimizzata.
L’Edps ritenne che quelle informazioni fossero comunque dati personali, imponendo di inserire Deloitte nell’informativa privacy.
Il Tribunale UE (T-557/20), ribaltando questa posizione, chiariva che la qualificazione come dato personale va fatta dal punto di vista del destinatario: in poche parole, non basta sapere che altri soggetti (come il CRU) dispongono di dati identificativi, ma occorre verificare se il destinatario abbia mezzi concreti e legittimi per re-identificare i soggetti.
La Corte di Giustizia UE ha quindi confermato che i dati pseudonimizzati possono essere considerati anonimi quando il rischio di re-identificazione è solo teorico, sancendo un approccio basato sul rischio concreto, in continuità con la sentenza Breyer (C-582/14)2, che la stessa Corte ha richiamato quale precedente diretto, proprio per ribadire il principio di valutazione concreta del rischio di identificazione.
Quantomeno, non in senso rivoluzionario:
Alla luce del quadro normativo vigente, i principali impatti pratici sono i seguenti:
Ciò dimostra che serve rigore nell’analisi documentale, nel tracciamento delle decisioni e nella collaborazione di tutte le funzioni aziendali coinvolte (privacy, legale, IT).
Infatti, se c’è un elemento che ha davvero cambiato il paradigma della protezione dei dati, non è tanto questa o quella sentenza, ma il principio di accountability.
Il GDPR ha trasformato la privacy da un sistema di regole prescrittive a una responsabilizzazione proattiva: ogni organizzazione deve scegliere, giustificare e dimostrare le misure adottate, calibrandole sul contesto e sul rischio reale.
Questo è davvero rivoluzionario perché:
La sentenza Deloitte non fa che rafforzare questo approccio: ribadisce che il rischio di re-identificazione va valutato in modo concreto, documentabile, e che le autorità devono motivare le proprie decisioni.
Il GDPR, quindi, resta innovativo non per continue rivoluzioni giurisprudenziali, ma perché responsabilizza le imprese a diventare architetti della propria compliance, trasformando la privacy in cultura organizzativa.
A nove anni dall’entrata in vigore del GDPR (2016), nonostante i numerosi provvedimenti chiarificatori da parte del Garante Privacy, Edpb e Corte di Giustizia UE e l’integrazione nei processi aziendali (attraverso DPIA, data mapping, figure DPO), ogni sentenza o provvedimento in materia di protezione dati viene ancora spesso presentato dai media (e anche dai professionisti del settore) come “storico” o “rivoluzionario”.
Il GDPR rappresenta probabilmente uno dei regolamenti più discussi e più citati della storia europea e continua a essere narrato come un perenne cantiere normativo.
Questa dinamica è peculiare del settore privacy ed è dovuta anche ai seguenti fattori:
Ne consegue che il GDPR, pur essendo un regolamento ormai strutturale e consolidato, continua a essere percepito come “nuovo”.
Questa dinamica dell’hype ha però implicazioni importanti, in quanto rende difficile una discussione tecnica e matura tra professionisti e aziende. Porta, inoltre, a investimenti “a scatti”, sull’onda di sentenze o sanzioni, invece di una governance continua.
Riduce infine la fiducia dei cittadini, che percepiscono il tema come astratto e burocratico, anziché come garanzia concreta dei propri diritti.
In realtà, la stabilità normativa che emerge dalla sentenza Deloitte dimostra l’opposto: la privacy è ormai un sistema giuridico maturo.
Servirebbe una comunicazione più sobria, orientata a diffondere consapevolezza e cultura, piuttosto che allarmismo.
Per contestualizzare il fenomeno, è interessante guardare ad altre riforme europee o italiane entrate a pieno regime negli ultimi anni, che oggi non vengono più percepite come “nuove”.
Queste normative, sebbene inizialmente accolte con timore, oggi fanno parte della quotidianità dei settori di riferimento. Il GDPR, invece, resta “brandizzato” come novità, anche per chi lo applica da anni.
La “sentenza Deloitte” conferma una traiettoria normativa coerente. Il GDPR richiede un approccio concreto, documentato e orientato al rischio, senza automatismi. La vera novità sta in un ulteriore chiarimento di questo principio, non in una rivoluzione giuridica.
A prescindere dai titoli sensazionalistici, l’innovazione è nella solidità dell’approccio, non nella rottura delle regole.
Il confronto con altre normative europee dimostra che la persistenza dell’etichetta “nuova normativa privacy” è più culturale che giuridica.
Il vero salto di qualità sarà uscire dalla logica emergenziale, consolidare la privacy come valore aziendale e standard di governance, e, soprattutto raccontare la privacy come elemento di fiducia e competitività, smettendola con lo storytelling della normativa avvolta dal “mistero”.