
Una banale pubblicità di jeans con Sydney Sweeney scatena accuse spropositate di eugenetica, svelando una verità scomoda. Questo caso non è un incidente isolato, ma il sintomo di un “politicamente corretto” che, forse, non è mai stata una vera conquista culturale ma solo un trend di marketing. Analizziamo come questa polemica smascheri l’ipocrisia del “Woke Capitalism” e la pericolosa deriva di un dibattito pubblico ormai incapace di sfumature, intrappolato tra censura preventiva e polarizzazione algoritmica.
Partiamo da un fatto, quasi banale. Una catena di abbigliamento, American Eagle, sceglie la testimonial del momento, Sydney Sweeney, per una nuova campagna. Il gioco di parole è di una semplicità disarmante: “Sydney Has Great Jeans”. Jeans come i pantaloni, genes come i geni. Un’allusione voluta, certo, in cui si scherza sul fatto che la sua unicità derivi tanto dai suoi pantaloni quanto dal suo DNA.
Il video teaser, nemmeno la campagna principale, scatena un putiferio. L’accusa, immediata e feroce, è pesantissima: eugenetica. Sì, avete letto bene. Poiché la Sweeney incarna un certo stereotipo di bellezza occidentale – bionda, occhi azzurri, forme generose – la campagna viene immediatamente collegata a teorie cospirazioniste come la “grande sostituzione etnica” e alla propaganda del dog whistle, il fischietto per cani, quel messaggio cifrato percepibile solo da un certo tipo di pubblico.
La reazione è così violenta da sembrare uno schiaffo a mano aperta. Ma forse è proprio lo schiaffo di cui avevamo bisogno per guardarci allo specchio e chiederci: cosa si è rotto nel nostro modo di concepire il dibattito pubblico?
Ma forse è proprio lo schiaffo di cui avevamo bisogno per guardarci allo specchio e chiederci: cosa si è rotto nel nostro modo di concepire il dibattito pubblico?
Concept Creep: Quando le Parole Perdono Peso
La cosa più interessante, e a tratti surreale, è che stiamo applicando un termine gravissimo come eugenetica – che evoca pulizia etnica e programmi di sterilizzazione forzata – a una pubblicità di jeans. Questo è un esempio da manuale di quello che lo psicologo Nick Haslam ha definito concept creep, lo slittamento semantico dei concetti. Usiamo parole nate per descrivere traumi e orrori indicibili per situazioni banali, svuotandole della loro potenza e del loro significato storico.
Questo fenomeno ci porta dritti a una sorta di neopuritanesimo dell’inclusività. Un’ansia performativa dove ogni battuta, ogni allusione, ogni contenuto non perfettamente allineato a un canone rigido e autoimposto viene immediatamente processato e condannato. Ma questo atteggiamento non educa, anzi, ottiene l’esatto contrario. Scatena una reazione uguale e contraria, come dimostra l’esultanza di ex conduttrici di Fox News che celebrano “finalmente una bella ragazza bianca e bionda in una pubblicità”. La polarizzazione si nutre di se stessa: più spingi da un lato, più generi una spinta identica dal lato opposto.
La polarizzazione si nutre di se stessa: più spingi da un lato, più generi una spinta identica dal lato opposto.
Il Capitalismo Woke e la Morte della DEI
La mossa di American Eagle, che fino a pochi mesi prima produceva hijab in denim e sceglieva come testimonial atlete afroamericane, rivela una schizofrenia comunicativa solo apparente. Potrebbe non essere una gaffe, ma una scommessa calcolata. Nell’economia dell’attenzione, come sappiamo, anche la polemica è moneta sonante. Una provocazione consapevole per bucare il rumore di fondo.
Ma soprattutto, questo episodio smaschera la grande ipocrisia di quello che viene definito Woke Capitalism. Ci pone davanti alla domanda fondamentale che da tempo serpeggia nel settore: la spinta verso la Diversità, l’Equità e l’Inclusione (DEI) è stata un reale cambiamento di valori o solo l’ultimo, profittevole, giochino del marketing?
Se la DEI è solo una moda, allora si comporta come tale. Proprio come i fidget spinner o le tendenze cromatiche del fast fashion, svanisce quando il clima sociale e politico cambia. L’abbandono di narrative inclusive per tornare a modelli più tradizionali non è un passo indietro, è la semplice constatazione che quel modello di marketing ha smesso di fruttare. La DEI, per come è stata implementata da molte aziende, forse non è morta: forse non è mai veramente esistita come valore fondante, ma solo come strumento tattico.
Il Dibattito Pubblico tra Iperbole e Omologazione
Se ogni contenuto rischia di essere accusato dei peggiori crimini contro l’umanità sulla base dell’interpretazione più estremista possibile, dove poniamo il limite? Il rischio concreto è una censura preventiva, dove le aziende, per paura del linciaggio mediatico (lynch mob), producono comunicazioni sempre più blande, sicure e, di conseguenza, invisibili.
Il dibattito pubblico viene modellato da questi scontri iperbolici su questioni triviali. Ci abituiamo a una comunicazione urlata, dove la sfumatura – che dovrebbe essere il cuore di ogni discorso maturo – è la prima vittima. Questo non aiuta a formare cittadini consapevoli, ma solo a radicalizzare fazioni che, per definizione, sono impermeabili al dialogo.
In tutto questo, il ruolo degli algoritmi dei social media è centrale. Sono progettati per amplificare le reazioni emotive, che si tratti dell’indignazione furiosa o della derisione sprezzante. E così, una polemica marginale su una pubblicità mediocre viene gonfiata a evento di rilevanza globale, distorcendo completamente la nostra percezione delle priorità e la scala dei problemi reali.
Per chiudere, questa storia non riguarda Sydney Sweeney né un paio di jeans. Riguarda noi. La nostra cultura, digitale e non. La nostra ormai cronica incapacità di calibrare le reazioni, in una sorta di fame bulimica di indignazione a basso costo.
La campagna di American Eagle, intenzionale o meno, ha agito come un reagente chimico: ha fatto esplodere l’instabilità latente del nostro dibattito, ha messo a nudo la fragilità di un politicamente corretto che si è rivelato essere solo un trend passeggero. E questa perdita della capacità di dialogare, di accettare la complessità e la sfumatura, è un problema reale. Un problema che non possiamo delegare a un’azienda di abbigliamento, perché l’impoverimento del discorso pubblico è una responsabilità collettiva.