Quando si parla di cyber security, l’istinto è sempre lo stesso: pensare a come bloccare gli attacchi prima che accadano.
Firewall, crittografia, controlli. Tutto giusto ed indispensabile. Ma non è abbastanza.
Infatti, volenti o nolenti, il momento in cui qualcosa va storto arriva. Non è un’ipotesi, bensì una certezza.
E lì, nel pieno dell’emergenza, non basta avere la tecnologia giusta: conta soprattutto come l’organizzazione reagisce. Ciò che conta è essere pronti, davvero. È questo il senso profondo di ciò che chiamiamo prontezza operativa (incident readiness).
Dalla definizione del concetto alla sua articolazione normativa, passando per i presidi organizzativi e culturali da mettere in campo, l’obiettivo è offrire una guida concreta per chi ha la responsabilità di proteggere persone, dati e infrastrutture nel nuovo teatro delle minacce digitali.
La incident readiness non è solo una procedura da attivare quando suonano gli allarmi. È un modo di essere. Un atteggiamento, un’abitudine, una cultura aziendale costruita giorno dopo giorno.
Non si tratta solo di avere strumenti o piani sulla carta. Si tratta di allenare persone e strutture a pensare, scegliere e agire con lucidità anche quando il tempo stringe e la pressione è altissima.
È qui che si misura la vera resilienza: nella capacità concreta di reggere l’urto, contenere i danni e ripartire. Non quando tutto va bene, ma quando tutto si rompe.
Il termine incident readiness viene spesso confuso con incident response. Ma c’è una differenza radicale. L’incident response è ciò che si fa dopo che qualcosa è accaduto. La incident readiness è ciò che si costruisce prima.
È la capacità preventiva di affrontare l’imprevisto con lucidità, velocità e coerenza.
Essere pronti non significa solo avere un piano su carta, ma:
In altre parole, readiness significa essere operativamente lucidi nel caos.
Oggi la readiness oltre ad essere una buona pratica è anche un obbligo formale. La Direttiva NIS 2 (recepita in Italia con il D.Lgs. 138/2024) impone a tutti i soggetti essenziali e importanti di dotarsi di presidi concreti per la gestione degli incidenti.
L’articolo 25 del decreto NIS prescrive infatti l’obbligo di segnalare senza ingiustificato ritardo ogni incidente che impatti significativamente sui servizi offerti.
Parallelamente, il GDPR impone la notifica dei data breach entro 72 ore, quando l’incidente abbia impattato sui diritti e le libertà degli interessati.
Ma per valutare l’impatto, serve avere processi pronti, strutture attive e capacità decisionale immediata.
Infine, anche l’AI Act (Regolamento UE 2024/1689) impone ai provider di sistemi ad alto rischio di gestire gli incidenti gravi cioè eventi con impatto critico, quali: decesso o gravi danni alla salute di una persona; compromissione irreversibile di infrastrutture critiche; violazione dei diritti fondamentali tutelati dal diritto UE; danni gravi a beni o all’ambiente.
Questo significa che la readiness è ormai un fattore trasversale a tutto l’ecosistema digitale.
Costruire una readiness reale significa intervenire su più livelli, contemporaneamente e in particolare su:
Non si è mai davvero pronti finché non si è provato ad esserlo. Le simulazioni sono lo strumento più potente per testare la readiness; non servono per comprendere se si sa tutto a memoria, ma a:
Le simulazioni possono essere tabletop (su carta), tecniche (con attacchi simulati), o complete (con scenari reali e coinvolgimento multi-livello). L’importante è farle con regolarità secondo uno scadenzario, analizzarne i risultati con rigore ed avviare le opportune correzioni laddove si evidenziano delle lacune.
Un incidente non è solo un fatto tecnico. È anche – e soprattutto – un evento di comunicazione. clienti, fornitori, media, autorità: tutti dovranno/vorranno sapere cosa è successo. E come si sta reagendo.
La readiness quindi comporta anche:
Una risposta tecnica senza comunicazione efficace può generare danni reputazionali enormi. Al contrario, anche in caso di attacco grave, una gestione trasparente, continua e coerente può rafforzare la fiducia degli stakeholder.
La readiness non si compra; si costruisce. E si costruisce nella cultura interna dell’organizzazione. Quando le persone si sentono libere di segnalare problemi, quando la sicurezza è parte del lavoro quotidiano, quando l’incertezza non paralizza ma attiva… solo allora si può dire che un’organizzazione è davvero pronta.
Questa cultura richiede:
In altre parole, readiness significa che ogni persona, in ogni ruolo, sa che la sicurezza riguarda anche lei. E che in caso di emergenza, sa cosa fare, senza aspettare ordini.
Nessuna organizzazione potrà mai prevedere tutto. Ma può prepararsi bene. E quando l’incidente arriverà – perché arriverà – ciò che farà la differenza non sarà la perfezione tecnica, ma la prontezza umana e organizzativa.
Essere incident ready non è solo un obiettivo di compliance da raggiungere. È una forma di rispetto verso chi si protegge, verso il proprio lavoro, verso i propri clienti, verso la fiducia che ogni giorno viene affidata a sistemi e processi digitali.
La readiness è il nuovo cuore della resilienza ed è tempo di metterlo in funzione.