Al centro di ogni strategia di difesa informatica e di ogni percorso serio di conformità normativa non ci sono solo tecnologie, procedure o regolamenti.
C’è prima di tutto una capacità tutta umana, essenziale e troppo spesso trascurata: quella di analizzare, ragionare, decidere con metodo e consapevolezza.
È qui che entra in gioco il pensiero analitico, il vero motore silenzioso che permette di trasformare norme, standard e misure di sicurezza in scelte operative efficaci.
Questo articolo apre una trilogia dedicata proprio a questo: raccontare e rendere concreto il pensiero analitico come fondamento operativo indispensabile per la cyber security, la protezione dei dati e l’adempimento reale – non solo formale – ai requisiti posti da GDPR, NIS 2, AI Act.
Partendo dalle sue radici filosofiche e militari, vediamo perché, senza pensiero analitico, non esiste sicurezza che possa dirsi davvero solida, consapevole, viva.
Ecco che cos’è l’analitical thinking, perché è così centrale in ogni sistema di cyber security e protezione dati e perché dovrebbe diventare una competenza quotidiana per chiunque abbia responsabilità operative o decisionali in questo ambito.
La sicurezza informatica non si esaurisce nei dispositivi, nei software o nei regolamenti. Tutti questi elementi – firewall, algoritmi, checklist di compliance – sono certamente importanti, ma rappresentano solo l’aspetto visibile, la superficie di un lavoro molto più profondo.
Alla base di tutto, spesso ignorata ma assolutamente indispensabile, c’è una capacità umana precisa: quella di ragionare con metodo, di scomporre problemi complessi, di individuare connessioni e priorità.
In una parola: il pensiero analitico (Analitical Thinking). Non è teoria astratta, né un esercizio da specialisti, ma è il requisito concreto senza il quale nessuna organizzazione può davvero proteggere reti, sistemi e dati, così come nessun esercito potrebbe pianificare una strategia efficace.
Il pensiero analitico è quella capacità tutta umana di affrontare situazioni complesse non lasciandosi sopraffare dalla loro apparente confusione, ma scomponendole in parti più semplici e leggibili.
Non si tratta solo di capire, ma di ricostruire l’essenza dei problemi pezzo dopo pezzo, mettendo ordine, cercando connessioni, distinguendo ciò che conta davvero da ciò che è secondario.
Secondo il National Center for the Improvement of Educational Assessment (Nciea), pensare analiticamente significa proprio questo: identificare, scomporre, osservare in profondità e poi articolare come ogni elemento contribuisce al tutto.
È un processo che non si affida mai all’impressione o all’intuizione vaga, ma si fonda su dati, relazioni logiche, valutazioni comparate.
La differenza rispetto al pensiero critico sta proprio qui: mentre il pensiero critico si concentra nel mettere in discussione affermazioni o valutare se un’informazione è affidabile, il pensiero analitico va più a fondo, si preoccupa di destrutturare la realtà per capirne le dinamiche interne e riuscire così a prendere decisioni consapevoli e solide.
È lo stesso metodo che, da secoli, guida le strategie militari e oggi è diventato indispensabile anche nella cyber security e nella protezione dei dati che sono contesti, dove affrontare problemi, senza scomporli e senza comprenderne la struttura, significa esporsi inevitabilmente a errori e vulnerabilità.
Pensare analiticamente quindi non è solo una questione intellettuale: è uno strumento operativo concreto, che ogni professionista serio deve imparare a utilizzare ogni giorno.
Il pensiero analitico ha radici profonde nei contesti più strategici della storia umana: il mestiere del generale.
Un esempio evidente lo troviamo leggendo il “Commentarii de bello gallico” di Giulio Cesare da cui ha tratto ispirazione anche Napoleone Bonaparte.
Poi, Antoine-Henri Jomini, Ufficiale dello Stato Maggiore del Maresciallo Ney e osservatore acuto delle campagne napoleoniche, che insieme a Clausewitz, fu uno dei massimi pensatori della strategia militare nel XIX secolo, nel suo famoso libro Précis de l’art de la guerre del 1838, sottolineava come la vittoria non dipenda solo da uomini o armi, ma anche dalla capacità di valutare terreni, avanzamenti e mosse avversarie con rigore e metodo.
Inoltre, il pensiero analitico in ambito militare non è solo teoria strategica: nei manuali militari moderni si insegna che, prima e durante una missione, solo attraverso un’analisi continua e iterativa si possono trasformare dati grezzi in decisioni efficaci sul campo.
Ciò dimostra che negli ambienti militari il pensiero analitico non era e non è una disciplina astratta, ma un efficace strumento del comando che consente di trasformare informazioni grezze in ordini chiari e strategie coerenti.
È stato così che i generali napoleonici calibravano le loro campagne, scegliendo offensive o ritirate non per istinto, ma per analisi rigorose delle variabili di campo.
Lo stesso avveniva durante la Seconda guerra mondiale, con le operazioni d’intelligence che decifravano codici e sfruttavano pattern per anticipare mosse nemiche.
Oggi quel medesimo approccio vive nella cyber security. Quando un CISO analizza una vulnerabilità, valuta una minaccia emergente o studia i nuovi requisiti normativi – come GDPR, Direttiva NIS 2 e AI Act – sta applicando lo stesso metodo strategico di quei generali.
Osserva dati, valuta scenari, definisce la migliore mossa per difendere territori digitali e asset critici.
In questo senso, il campo di battaglia e il cyberspazio condividono una stessa grammatica operativa: l’analytical thinking.
Quando si parla di GDPR, NIS 2 e AI Act, il pensiero va subito a norme, obblighi, sanzioni.
Ma il cuore operativo di tutte queste normative non è nelle formule giuridiche. È nel metodo con cui si affrontano le decisioni quotidiane: e quel metodo ha un nome preciso, che spesso viene dimenticato o dato per scontato. Si chiama pensiero analitico.
Il pensiero analitico è ciò che permette di andare oltre la semplice lettura di un testo di legge e trasformare quell’insieme di articoli in processi reali, efficaci, capaci di proteggere persone, dati, organizzazioni.
Senza questa capacità, qualunque procedura rischia di essere ridotta a burocrazia. E nessuna compliance, per quanto formalmente ineccepibile, può essere considerata efficace.
Prendiamo il Gdpr. In particolare l’articolo 35, che introduce le valutazioni d’impatto sulla protezione dei dati, conosciute come DPIA (Data Protection Impact Assessment).
Una DPIA non è un modulo da compilare distrattamente ma è, a tutti gli effetti, un esercizio strutturato di pensiero analitico.
Infatti, quando si effettua una valutazione d’impatto, occorre:
Senza questo approccio analitico, una DPIA rischia di trasformarsi in un documento sterile, utile solo per riempire un fascicolo.
Il vero valore della DPIA, invece, sta nella sua capacità di prevenire danni concreti, proteggendo le persone reali che sono dietro ai dati trattati.
Anche la NIS 2, recepita in Italia con il D.Lgs. 138/2024, si basa interamente su questo principio.
L’articolo 21 della Direttiva e il correlato art. 24 del Decreto di recepimento richiede espressamente agli enti obbligati di adottare “appropriate misure tecniche, operative e organizzative”, basate su un’attività costante di analisi dei rischi.
Concretamente, significa che il pensiero analitico deve diventare un’abitudine strutturale per chi si occupa di cyber security e protezione delle infrastrutture critiche.
Non è sufficiente aggiornare un antivirus o installare un firewall, ma bisogna:
Senza una mentalità analitica costante, nessuna organizzazione può realmente rispettare lo spirito della NIS 2.
Arrivando al Regolamento (UE) 2024/1689 sull’intelligenza artificiale, la logica non cambia.
Anche in questo caso, il Legislatore impone alle organizzazioni un’attività continua di classificazione dei rischi legati ai sistemi IA adottati o sviluppati.
E non si tratta di un esercizio formale. Classificare il livello di rischio di un sistema significa:
Ancora una volta, senza pensiero analitico, il rischio è quello di trattare l’AI come una tecnologia qualsiasi, senza considerare le sue implicazioni profonde. E questo, oggi, non è più accettabile né per il diritto europeo né per la società civile.
In ogni organizzazione moderna si sente parlare di cyber security, protezione dei dati personali, compliance normativa.
Eppure, dietro le dichiarazioni e le policy aziendali, resta una domanda semplice ma essenziale: quante realtà investono davvero nello sviluppo del pensiero analitico all’interno dei propri team? E quante si preoccupano di formare persone capaci non solo di applicare procedure, ma di comprenderne il senso, di leggere i rischi in modo strutturato, di prendere decisioni ponderate quando non esistono risposte già pronte?
Il pensiero analitico non è un lusso per accademici o per specialisti, ma è piuttosto una competenza viva, concreta, quotidiana. È un dovere operativo per chiunque abbia a che fare con la protezione delle informazioni, con la gestione dei dati personali, con la sicurezza delle reti e dei sistemi.
Senza la capacità di analizzare in profondità ogni scenario, nessun sistema di difesa potrà mai essere davvero efficace.
Le normative come GDPR, NIS 2, AI Act non sono infatti semplici elenchi di obblighi, ma strutture che richiedono metodo, giudizio, attenzione continua. E il metodo per eccellenza per la compliance normativa è proprio quello analitico.
Nel secondo capitolo della trilogia, sarà l’occasione per esplorare il legame diretto tra pensiero analitico e capacità di comando, per scoprire insieme come l’analytical thinking può diventare un efficace metodo di comando nella sicurezza informatica e nella governance dei dati.