La cyber security non si gioca più soltanto nel mondo digitale. Oggi, proteggere i dati significa anche proteggere i luoghi fisici in cui quei dati sono conservati.
Non bastano più firewall, crittografia e sistemi di backup: servono porte sicure, chiavi controllate, sensori affidabili e procedure ben rodate.
In un tempo in cui i server che contengono informazioni strategiche si trovano in luoghi precisi, materiali, visibili, trascurare la sicurezza fisica significa esporsi a rischi concreti e gravissimi.
Ecco perché è una priorità il valore della protezione degli ambienti nella difesa degli asset critici, a partire modello “a cipolla”, un approccio multilivello pensato per difendere gli spazi in profondità, e dalla protezione dagli eventi naturali.
La resilienza non si costruisce solo con il software. Si costruisce anche con serrature, barriere, controlli, manutenzioni e piani di emergenza. In un mondo sempre più digitalizzato, il punto debole della sicurezza informatica può essere un varco fisico lasciato incustodito.
Il Cyber Resilience Act (Reg. UE 2024/2847), la Direttiva NIS 2 e la Direttiva 2022/2557 sulla resilienza dei soggetti critici lo confermano: la protezione fisica degli ambienti è parte integrante delle misure di continuità operativa e della resilienza organizzativa.
Proteggere i luoghi significa proteggere i dati, le persone, i processi.
Quando si parla di sicurezza informatica, l’attenzione tende a concentrarsi su reti, firewall, software e sistemi digitali.
Ma ogni informazione digitale, prima o poi, si concretizza in un luogo fisico. Ecco perché gli ambienti devono essere trattati come elementi fondamentali del sistema di sicurezza, non come semplici contenitori neutri.
Gli ambienti fisici critici da proteggere vanno ben oltre la classica immagine della sala server.
Si tratta di archivi cartacei, locali di back office, centrali operative e sale server, laboratori di ricerca, sale di registrazione audio-video, studi di doppiaggio, postazioni di montaggio o missaggio e centri di ascolto, sale di conta denaro, sale di conferenza riservate, uffici direzionali dove si prendono decisioni strategiche, centri stampa. Ma anche magazzini tecnologici dove sono stoccati dispositivi e supporti contenenti dati sensibili.
Ogni spazio in cui transitano dati riservati, si elaborano contenuti protetti, si accede a sistemi informatici, si conservano dati cartacei o si prendono decisioni sensibili rappresenta un potenziale bersaglio per malintenzionati, spie industriali, attori esterni ostili, o anche semplicemente per errori e negligenze interne.
La minaccia non è sempre sofisticata: può essere costituita da un fornitore non controllato, da una porta non chiusa correttamente, o da una postazione incustodita con documenti visibili.
La protezione di questi ambienti, che si traduce nella protezione degli asset ivi conservati che contengono dati, quindi non è “un di più”, né un adempimento formale.
È una misura di continuità operativa, un requisito di compliance, una tutela degli asset strategici, una garanzia per la reputazione.
Difendere i luoghi in cui “vive l’informazione” significa, oggi più che mai, difendere la stessa capacità dell’organizzazione di lavorare, produrre, innovare e proteggere ciò che la rende unica.
La sicurezza fisica, per essere realmente efficace, non può essere affidata a una singola barriera o a un’unica tecnologia. Deve invece assumere la forma di un sistema multilivello, concepito come una vera e propria architettura di difesa. È questo il senso profondo del cosiddetto “modello a cipolla” o ”defence in depth”, un principio tanto intuitivo quanto strategico.
Più ci si avvicina al cuore pulsante dell’organizzazione, maggiore deve essere il livello di protezione applicato.
Il modello si fonda su una logica di stratificazione progressiva, in cui ogni strato di sicurezza rappresenta una difesa successiva, progettata per ritardare, ostacolare, scoraggiare o neutralizzare ogni tentativo di accesso non autorizzato.
La sua efficacia sta proprio nella ridondanza intelligente: se uno strato fallisce, entra in funzione quello successivo, senza lasciare varchi aperti.
Si parte dal perimetro esterno – il primo anello di sicurezza – che può includere recinzioni, sorveglianza, sistemi di illuminazione, controllo e presidio degli accessi veicolari o pedonali.
Si passa quindi agli accessi, agli edifici dove entrano in gioco porte blindate, badge, riconoscimento biometrico, sistemi di registrazione e vigilanza fisica.
Man mano che si prosegue verso l’interno, si incontrano barriere sempre più selettive: aree riservate, zone a rischio limitato, ambienti classificati o segregati, fino ad arrivare al nucleo centrale solitamente una sala server, un archivio critico o un locale di lavorazione di dati sensibili – dove si concentrano i presìdi più sofisticati, come i sistemi di blocco automatico, la videosorveglianza attiva, la rilevazione ambientale in tempo reale e il monitoraggio continuo degli accessi.
Questa logica a strati non è solo una questione tecnica: è anche una forma mentale, una metodologia di progettazione.
Consente infatti di costruire un sistema scalabile, sostenibile e proporzionato, evitando sia il rischio di sottoprotezione, sia quello – altrettanto controproducente – di una sovraprotezione disfunzionale o troppo onerosa.
Infatti, l’adozione del modello a cipolla impone una riflessione sul rapporto costi-benefici: non ogni ambiente richiede la stessa intensità di difesa, ma ogni strato deve essere coerente con la criticità dell’asset protetto.
In definitiva, la sicurezza a strati è un’arte dell’equilibrio:
È un modello tanto valido per i sistemi fisici quanto per quelli informatici, e costituisce oggi una delle basi concettuali più solide per la progettazione della sicurezza integrata nelle organizzazioni.
Per costruire un sistema di protezione fisica efficace, occorre distinguere con precisione le diverse categorie funzionali di misure di sicurezza, in modo da comporre una difesa coerente, bilanciata e integrata.
Le misure si suddividono convenzionalmente in tre grandi famiglie: attive, passive e reattive.
Ognuna ha un ruolo specifico all’interno del ciclo di difesa e va selezionata in funzione del contesto, della criticità dell’ambiente e del valore degli asset da proteggere.
Le misure attive sono quelle che prevengono fisicamente l’accesso non autorizzato, fungendo da prima barriera contro l’intrusione.
Hanno una funzione essenzialmente deterrente e preventiva, poiché il loro scopo è impedire l’ingresso prima che si verifichi una violazione.
Esempi tipici includono:
L’efficacia di queste misure è massima quando integrate in un sistema di gestione degli accessi basato su policy chiare, registri aggiornati e audit periodici.
Ogni misura attiva deve essere manutenuta con regolarità e inserita in una logica di autorizzazioni scalabili e revocabili.
Se le misure attive non bastano o vengono aggirate, entrano in gioco le misure passive e reattive, concepite per rilevare l’evento anomalo e attivare una risposta tempestiva.
Si tratta quindi di strumenti che, pur non bloccando direttamente l’accesso, servono a monitorare l’ambiente, documentare le violazioni e innescare meccanismi di contenimento e notifica.
Tra queste rientrano:
La reazione a un evento non autorizzato deve essere programmata, simulata e documentata, secondo piani di risposta che includano anche escalation, evacuazione, messa in sicurezza di asset e coinvolgimento delle autorità competenti, se necessario.
Poiché molte misure di protezione – come la vigilanza, la portineria o i servizi di guardiania – vengono normalmente affidate a fornitori esterni, è essenziale garantire un controllo rigoroso su questi soggetti. In particolare, è necessario che:
La scelta tra misure attive, passive e reattive non può essere automatica o standardizzata. Deve derivare da un’analisi specifica del rischio condotta sull’ambiente da proteggere, tenendo conto di:
Solo calibrando le misure sul contesto reale è possibile evitare sovraccarichi economici inutili e allo stesso tempo evitare lacune potenzialmente critiche.
Il risultato deve essere un sistema di protezione che non ostacoli l’attività, ma la preservi e la renda più affidabile nel tempo.
La protezione fisica degli ambienti critici non può limitarsi alla difesa contro accessi non autorizzati.
Fermare le persone non basta. Occorre prevenire, contenere e gestire anche le minacce ambientali, spesso più insidiose perché silenziose, ricorrenti e sottovalutate.
Le minacce di origine naturale, climatica, biologica o infrastrutturale rappresentano una componente essenziale del rischio operativo, e trascurarle significa lasciare scoperta una superficie d’attacco potenzialmente devastante.
Tra i pericoli ambientali più frequenti si annoverano:
Questi eventi, se non adeguatamente previsti, possono provocare danni irreversibili ai dati, ai dispositivi, ai documenti o alla struttura stessa degli ambienti.
In alcuni casi, un singolo episodio non gestito può portare alla perdita completa dell’operatività o al blocco dei servizi essenziali.
Per contrastare questi rischi, è necessario integrare misure ambientali specifiche all’interno della progettazione della sicurezza fisica, dando vita a un vero e proprio sistema integrato di rilevazione come:
Inoltre, è indispensabile una attività periodica, pianificata e registrata che preveda:
La logica da adottare è quella della difesa ambientale predittiva: non si interviene solo quando il danno si manifesta, ma si agisce in anticipo, rilevando anomalie, segnali deboli e condizioni-limite che potrebbero evolvere in incidenti.
Inoltre, in un contesto normativo sempre più orientato alla resilienza – come quello previsto dalla ISO/IEC 22301 sulla business continuity e dal Regolamento UE 2024/2847 (CRA) – la capacità di monitorare e mantenere la stabilità ambientale nei locali critici diventa parte integrante degli obblighi organizzativi e di compliance.
In un’epoca in cui tutto sembra virtuale, torna con forza una verità concreta: proteggere il digitale significa, oggi più che mai, proteggere il fisico.
Le informazioni non esistono nel vuoto: vivono in dispositivi collocati in stanze, attraversano cavi in sale operative, si imprimono su supporti conservati in archivi, vengono elaborate da persone in uffici reali.
Ogni infrastruttura digitale ha una dimensione materiale, e ogni piano di cyber security che ignora questa realtà è, di fatto, incompleto.
Non è un’opinione. Ma è ciò che richiedono, con sempre maggiore chiarezza, le principali normative e framework internazionali.
Il Cyber Resilience Act (Regolamento UE 2024/2847) impone un ripensamento strutturale delle misure di resilienza anche fisica, soprattutto per i soggetti critici. La Direttiva NIS 2 (recepita dal D.Lgs. 138/2024) evidenzia il ruolo degli ambienti nella continuità dei servizi essenziali.
Le norme ISO 22301 e ISO 22313 pongono l’infrastruttura fisica tra i presìdi chiave della business continuity.
Il messaggio più potente è forse quello implicito: la sicurezza vera è integrata, concreta, tangibile.
Si attua anche con una porta chiusa correttamente, un sensore che rileva un’anomalia prima che diventi emergenza, un piano di evacuazione testato e compreso da chi lavora.
È una sicurezza fatta di procedure e di presenza, di tecnologia e consapevolezza, di hardware e disciplina.
In un prossimo articolo entreremo nel cuore operativo della sicurezza, esplorando un modello semplice, ma potente che ogni organizzazione dovrebbe conoscere: le tre condizioni operative – normalità, anomalia, emergenza – e la loro gestione strategica.
Capire quando si sta passando da uno stato all’altro, e come agire prima che sia troppo tardi, è ciò che distingue la resilienza vera dalla sicurezza di facciata.
L’obiettivo è non farsi trovare impreparati tra equilibrio e caos.